Le ragioni di Piazza Taksim
Piazza Taksim non è una piazza qualunque. È una piazza simbolica. È la piazza dove si svolge la festa dei lavoratori, il primo Maggio. È il luogo dove sfocia la tensione tra la democrazia formale e la vocazione autoritaria del potere. Gezi Park era il luogo di fuga e rifugio, uno spazio vitale dove cercare riparo dai manganelli. La geografia sociale delle proteste di piazza Taksim ci rivela che qualcosa sta cambiando.
Una lotta comune che unisce un popolo di architetti, urbanisti, ambientalisti, studenti, anarchici, gay, tifosi di squadre di calcio (Besiktas, Fenerbache, Galatasaray), mussulmani anticapitalisti, kemalisti. Tutti uniti ad affrontare gas lacrimogeni, spray al peperoncino, getti d’acqua e il temibile ‘Condor’, un gas lacrimogeno che può portare all’arresto cardiaco. Ma per che cosa protestano?
Certo, la cementificazione del Parco Gezi è stato il classico casus belli. Ma sarebbe superficiale ridurre il senso politico di quella protesta allo spirito ecologista che contrasta la cementificazione di Gezi Park. Si tratta di una protesta politica che ha individuato il suo nemico comune: la Turchia di Erdogan.
Erdogan è il primo premier islamista nella repubblica militarmente laica voluta da Ataturk. Solo un politico lungimirante (indovinate chi?) poteva vedere in Erdogan l’amico islamista e moderato che l’Europa doveva inseguire. Del resto, si sa che l’uomo ha fiuto politico nello scegliere i suoi idoli. Vedere alla voce Vladimir Putin come maestro del pensiero liberale in Russia o Gheddafi come pioniere della democrazia in Libia.
C’è un detto popolare turco che dice: ‘I matrimoni sono come gli affari. Quelli buoni sono quelli veloci’. Se così fosse, allora il matrimonio tra Turchia ed Europa non sarebbe un buon affare: la procedura di adesione della Turchia all’UE risale al 1973. Non proprio ieri. Da allora è giusto riconoscerlo, la Turchia si è impegnata al rispetto dei criteri di Copenaghen per entrare nell’UE: sono criteri politici, economici e giuridici. Grazie a questi progressi dal 2005 è in corso il Partenariato di Adesione della Turchia all’UE. Da allora la porta è aperta, ma rischiamo che dietro quella porta, mai veramente aperta, socchiusa, non sia rimasto più nessuno a bussare per entrare. E questo perché? Per due motivi di fondo.
Il primo. Perché l’Europa è stata strumentalizzata. Da Erdogan che ha utilizzato lo spauracchio di Bruxelles come il punchball su cui sfogare la protesta per le riforme impopolari. Come a dire: ‘capisco le proteste. ma non posso farci nulla. Ce lo chiede Bruxelles’. Politica scaltra ma poco lungimirante, se è vero che dietro il mito (‘È l’Europa che ce lo chiede’) abbiamo sperperato un patrimonio di visioni e ideali di pacificazione, il grande patrimonio valoriale lasciato dai padri fondatori del sogno europeo.
Sempre più difficile concludere un matrimonio se i due promessi sposi non si riconoscono più.
Il parlamento europeo ha adottato una risoluzione molto dura sugli scontri di Gezi Park. Ha fortemente condannato la repressione brutale della polizia turca. Come ha reagito Erdogan? Dicendo: “Non riconosco alcuna decisione presa dall’Europarlamento sulla Turchia”. Rivendicando il divieto di ingerenza del Parlamento Europeo sulle questioni interne degli stati. Insomma, la Turchia deve definire da sé la sua agenda politica. Quello che Erdogan fa finta di dimenticare è che la Turchia è da anni pesantemente condannata dalla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti umani. Per il mancato rispetto della libertà di stampa: quanti sanno che la Turchia è la più grande prigione a cielo aperto per i giornalisti? Attualmente sono 71 i giornalisti richiusi in carcere, più della Siria e dell’Iran; per la violazione della libertà di riunione, per l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia contro i manifestanti. Tutte cose che nascono ben prima della violenza di Gezi Park. Ma che la protesta di Gezi Park ha reso evidente ed eclatante a tutto il mondo, stigmatizzando il comportamento del governo e del premier.
L’Europa fa bene a ricordare un principio fondamentale dello Stato di diritto.
Non esiste una democrazia libera se è sotto tutela dell’esercito! Non esiste una democrazia libera fondata sulla paura!
Ma bisogna essere equilibrati quando si parla di politica estera. Per questo bisogna saper fare autocritica e analizzare anche i difetti della politica estera europea nei confronti della Turchia, le reticenze, le paure, i silenzi che si annidano nella complicità.
Perché badate bene: dietro il punchball di Bruxelles (di nuovo: ‘È l’Europa che ce lo chiede’) si è celata la sterilità e la mediocrità anche di un’intera classe dirigente europea.
Del resto, se un matrimonio non è un buon affare, non è quasi mai per colpa di una sola delle parti. E l’Europa ha le sue responsabilità, enormi, sulle quali occorre interrogarsi e farsi un bell’esame di coscienza. Perché la Turchia rappresenta per l’Europa l’alibi perfetto per rimanere nel limbo dell’identità irrisolta. Allargamento e approfondimento sono le due chiavi di lettura del processo di integrazione europea. Ma la questione turca mette l’Europa con le spalle al muro e la costringe ad interrogarsi sui propri confini geografici ed identitari. Dove finisce l’Europa? Fino a dove si estende il concetto di identità europea?
Ha ragione il proverbio turco. Il matrimonio tra la Turchia e l’Europa non è un buon affare. Ma noi non siamo chiamati a costruire un matrimonio di interessi, fondato sulla valenza strategica e geopolitica di entrambi i partner. Dobbiamo impegnarci a costruire un matrimonio di valori fondati sui principi comuni della laicità, dello stato di diritto e della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali. Una unione nella diversità.
Infine, in conclusione, consentitemi di allargare il respiro alle piazze che oggi protestano per i diritti civili e politici.
C’è un filo rosso che lega le proteste dei giovani di piazza Taksim in Turchia con gli scontri di Piazza Tahrir in Egitto passando per le strade di Rio in Brasile. Senza dimenticare la Siria dove gli scontri, lontani dai riflettori dei media, vanno avanti da oltre due anni con violazioni sistematiche dei diritti umani in quella che è ormai una guerra civile senza frontiere. In tutte quelle piazze ci sono rivendicazioni sociali, contro la corruzione del potere, contro il precariato. Proteste che travalicano i confini nazionali e abbracciamo la dimensione della dignità umana e della libertà. Certo, sono piazze molto diverse tra loro e sarebbe un errore accomunarle oltre il lecito perché significherebbe ridurre le diversità culturali, sociali e religiose che ognuna di quelle piazze porta dentro di sé.
@Il testo è tratto dalla relazione all’iniziativa svolta a Casalecchio. Ringrazio il PD di Casalecchio e tutti coloro che hanno partecipato. Nel nostro piccolo abbiamo ricordato a noi stessi che le infinite querelle relative alle regole congressuali forse interessano poco le persone normali, ovvero quelle che non sono appassionate al genere letterario “regole per il congresso del PD”. Perché mentre noi ci avvitiamo in dibattiti autoreferenziali, lì fuori c’è un mondo che sta cambiando in fretta. E verso il quale un paese come l’Italia ha il dovere morale di tornare ad essere protagonista della scena internazionale. Chissà se gli aspiranti al Congresso sapranno cogliere in questo vuoto di senso che attraversa l’Europa e l’Italia l’opportunità per costruire una visione ideale di un moderno partito progressista ed europeo.
11 Luglio 2013