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Coronavirus: attenzione sì, allarmismo no

di Marco Lombardo

In questo articolo non si parla dell’emergenza coronavirus dal punto di vista medico, sanitario o epidemiologico. Per questi aspetti si rimanda ai siti scientifici, all’OMS, alle prescrizioni del Ministero della Salute e dell’Istituto Superiore di Sanità.


In questo articolo si parla invece del possibile impatto sociale ed economico dovuto al contagio da coronavirus e di come esso segnali le fragilità ed i punti di forza di un sistema Paese.

All’indomani dei primi casi di contagio da coronavirus a Bologna, insieme al Sindaco di Bologna, Virginio Merola, al collega alla Sanità, Giuliano Barigazzi, abbiamo incontrato i segretari dei sindacati confederali di CGIL CISL UIL, i rappresentanti di Confindustria Emilia Centro, Alleanza delle Cooperative italiane e CNA.  

L’incontro è stato convocato per fare il punto della situazione e la ricognizione delle misure prese dalle aziende del nostro territorio. 

Per riassumere l’incontro potrei usare queste parole. “Attenzione sì, allarmismo no”.

Primo aspetto: l’organizzazione della produzione e del mondo del lavoro davanti alle emergenze.

L’alternativa tra lavorare, come facevamo prima che l’allarme coronavirus arrivasse in Italia, e chiudere tutto, per paura del contagio, è sbagliata.

Si tratta di cambiare il modo in cui si lavora e si produce, riducendo al massimo il rischio del contagio. Non possiamo immaginare soluzioni semplici per problemi complessi. Si tratta di adattare le modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative e garantire la continuità dei piani operativi delle aziende, attraverso la gestione del rischio. 

A Shangai per 20 giorni sono rimasti chiusi teatri, musei, cinema, scuole e università. Centri commerciali e farmacie sono rimasti aperti a rotazione. I trasporti hanno continuato a funzionare, ma con frequenza ridotta. Eppure quasi tutti hanno continuato a lavorare, ma da remoto. E per la prima volta nei giorni scorsi non ci sono stati nuovi casi di infezione.

Per questo, anche sul nostro territorio l’invito immediato è stato dunque quello di adottare misure precauzionali per garantire la prosecuzione delle attività lavorative, minimizzando il rischio di diffusione del contagio da coronavirus, senza improvvisate soluzioni “fai da te”. 

Abbiamo scelto di NON adottare nuovi decaloghi, ma di monitorare che non ci fossero abusi o misure adottate nei luoghi di lavoro che potessero mettere a repentaglio la salute o la sicurezza. Purtroppo, il sistema produttivo italiano non è preparato ad un approccio problem-solving. Per questo rischia di arrivare impreparato rispetto alla gestione dei rischi nelle fase di emergenza.

Basti vedere la discussione pubblica che si è sviluppata nei media italiani sullo smart-working in emergenza coronavirus: come se, invece di essere UNA tra le possibili soluzioni, potesse diventare LA soluzione o la panacea di tutti i mali. In questo articolo si possono trovare alcune indicazioni per usare seriamente lo smart-working, al di là del trend topic del momento. 

https://www.marcolombardo.eu/lo-smartworking-non-si-improvvisa-come-usare-lo-smartworking-al-tempo-del-coronavirus/

In questo articolo sono invece riportati gli standard internazionali adottati da imprese globali che già da gennaio hanno dovuto applicare le misure precauzionali che rientrano nei piani operativi di continuità (POC) che vengono applicati in Cina, a Singapore o ad Hong Kong.
https://www.ilsole24ore.com/art/il-management-e-l-epidemia-cultura-imprese-nell-emergenza-biologica-ACGNLqLB


Secondo aspetto: la quantificazione del danno.

E’ ancora troppo presto per fare le stime complessive dell’emergenza economica e sociale del coronavirus. Le stime di questi giorni sembrano più dettate dalla logica delle aste del “mercante in fiera” in cui vince chi spara la cifra più alta. Una logica accettabile se fatta da qualche impresa interessata al cheating; decisamente inaccettabile se fatta da chi dovrebbe rappresentare interessi di categoria o interessi generali.


Lunedì si stimava una “lieve contrazione” del -0,2% del PIL; il lunedì successivo eravamo arrivati a parlare di Paese in “default economico” con previsioni del -3,0% del PIL.

Nei talk show televisivi si continuano a snocciolare stime previsionali apodittiche che non trovano mai giustificazioni in dati su calo degli ordini o del fatturato dell’economia reale. 

In primo luogo, prima della quantificazione del danno, va assunta la corretta prospettiva del tempo. Se pensiamo ad un danno emergenziale che passa come un raffreddore in qualche settimana è un conto. Se invece ci rendiamo conto di fronteggiare una situazione che non passerà prima di qualche mese, allora la stima cambia perchè cambia lo scenario del tempo. Con un conto che rischia di essere molto più salato.

La precisione delle stime e dei dati in nostro possesso è fondamentale per adottare le misure più idonee per sostenere il tessuto produttivo, il reddito delle persone e delle famiglie. Altrimenti si bruciano risorse inutilmente.

Facciamo un esempio. Se uno ha la febbre a 40 e gli si somministra uno sciroppo per la tosse, non solo non si abbassa la febbre, ma si finisce per buttare via anche lo sciroppo. Evaporare risorse pubbliche solo per rispondere alla richiesta di emergenza o alla logica del consenso è pericoloso. Le misure economiche adottate per la “zona rossa” erano più semplici da quantificare ed ammontano a circa 20 milioni di euro. A quanto devono ammontare le risorse stanziate per la “zona gialla”? Qualcuno stima che servano circa 3 miliardi di euro. Ma qui la quantificazione del danno, oltre ad essere fatta dentro uno scenario di tempo (se invece di qualche giorno dovessimo avere a che fare con una contrazione più lunga e più profonda che arriva fino a maggio e che dispiega i suoi effetti negli anni?)  si arricchisce di un’altra variabile: quella geografica. E se la “zona gialla” fosse estesa a tutta l’Italia?

Quando scoppiò la crisi del 2008, il Governo di allora stanziò un fondo di 8 miliardi di euro, con alcune disposizioni strutturali, come la cassa integrazione in deroga. Solo che allora le misure riguardavano essenzialmente le PMI e derivavano da una crisi finanziarie divampata oltre oceano. Oggi la crisi è dell’economia reale e rischia di impattare su tutti i settori produttivi del Paese. Terzo settore incluso. Pur dalla limitata prospettiva territoriale, registriamo che nel 2008 la produzione nel settore della meccanica registrò un calo del -8%. Oggi la prima stima del calo, dovuto alla cancellazione di ordini e dell’interruzione della filiera della fornitura, registra al momento -14%. Per non parlare del turismo (-80%), del commercio, dell’economia della cultura. A cambiare non è solo l’intensità del fenomeno: ad essere cambiata in questi ultimi 10 anni è la struttura della nostra economia, molto più interdipendente dagli scambi internazionali, con un sistema produttivo come quello del Nord-est che ormai dipende quasi esclusivamente dall’export, per debolezza e fragilità strutturale del mercato interno, nazionale ed europeo. Questo spiega perchè sia necessario l’intervento dell’Unione europea, oltre alle misure adottate dal Governo nazionale: sia per rilanciare gli investimenti pubblici e le misure di sostegno alle imprese, fuori dai vincoli di bilancio e dal patto di stabilità, sia per l’adozione di regole comuni per la misurazione ed il contenimento del contagio, allo scopo di evitare pericolosi “dumping sanitari” basati su asimmetrie informative rispetto ai tamponi distribuiti ed ai casi rilevati. 

Ultimo aspetto: la politica sotto stress.

La gestione dell’emergenza coronavirus in Italia sta mettendo a nudo i pregi ed i difetti dei politici italiani nella gestione dello stress. Ci sono caduti in molti: dal Presidente del Consiglio Conte che ha cambiato diverse volte l’approccio comunicativo sull’emergenza coronavirus fino allo scivolone sulla ”falla del sistema sanitario”, per arrivare ad amministratori navigati come Zaia e Fontana che hanno finito per andare fuori rotta, con danni enormi all’immagine ed alla reputazione del nostro Paese nel mondo.

Ha ragione il giornalista Frediano Finucci: (“Cari politici, con o senza virus, per affrontare telecamere e giornalisti ed evitare di fare figuracce è sempre meglio usare una protezione: invece della mascherina, provate col portavoce”).


https://www.informazionesenzafiltro.it/la-lezione-di-zaia-e-fontana-una-politica-di-primedonne-manca-un-portavoce/

Al di là dei personalismi, la prima vittima (politica) del coronavirus è stata la fragilità del sistema del federalismo regionale e municipale che ha innescato una gara al rialzo dell’allarmismo, in cui il senso di responsabilità istituzionale è finito ostaggio del “dilemma del prigionerio”.

C’è una misura precauzionale che dovremmo adottare tutti. Soprattutto chi ha responsabilità pubbliche: l’equilibrio. Per contenere l’insana voglia di protagonismo che contagia chi ha ruoli pubblici. Per non continuare a sovramediatizzare l‘emergenza. Per rispetto di chi è morto a causa del coronavirus. Per rispetto dei medici e del personale sanitario che continuano ad operare in prima linea nell’adempimento del loro dovere. Per rispetto dei tanti lavoratori precari o a termine che già oggi stanno perdendo il loro posto di lavoro o per gli imprenditori, i lavoratori autonomi ed i professionisti che stanno affrontando una situazione inedita che può portare ad un grave danno economico e sociale 

Non serve che ognuno di noi faccia il proprio TG serale sul coronavirus; serve condividere le risposte del Ministero della Salute e delle autorità competenti. In questi casi, meno persone parlano e meglio è. Altrimenti non facciamo altro che disorientare i cittadini ed alimentare l’allarmismo.

A volte, invece della mascherina, per proteggerci da noi stessi dovremmo usare il nostro senso di responsabilità.

4 Marzo 2020

© Marco Lombardo 2016